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Presentazionedi Bertrand Tavernier e Jean-Pierre Coursodon |
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Omaggio a Billy Wilder (1906-2002) Se si volesse disquisire sulla commedia americana come lo si è fatto sulla tragedia classica, non si potrebbe non opporre Billy Wilder e Frank Capra, i due poli del genere: Frank dipinge gli uomini come dovrebbero essere; Billy, non bugiardo e più selvaggio, li dipinge come dovrebbero esserlo, vale a dire come sono. Wilder, ce lo hanno detto cento volte, è un cinico: misantropo fino al partito preso, misogino fino alla villania, “terre à terre” fino alla volgarità, e per finire pessimista come nessuno. Tuttavia la differenza è forse meno grande di quel che appare. Prima di tutto perché Wilder possiede una tecnica, una scienza della costruzione comica che fanno di lui (essendo gli altri in pensione) l'ultimo classico in un'epoca di commedie informi e confuse in cui la risata muore soffocata dall'eccessiva noncuranza. Poi perché le storie che racconta finiscono sempre, nonostante le apparenze, per soddisfare la morale, come ai bei tempi. Solo che Wilder è più sottile, più ambiguo, e non si sa mai se questa morale soddisfatta è quella vera (che si fa un baffo della morale) o l'altra (quella dei suoi censori), di modo che egli è sempre mal compreso (…) D'altra parte il sesso, da cui gli si rimprovera di essere ossessionato, ha nei suoi film un posto molto minore rispetto al suo vero tema prediletto: l'ambizione, l'ossessione del successo (o più volgarmente il desiderio del lucro), tratto comune di molti suoi personaggi. Il suo cinismo consiste nel dire che la maggior parte della gente farebbe qualsiasi cosa pur di arrivare; il che è l'esatta verità, anche se non è una buona cosa da dire. Questa costante costituisce l'unità tematica di un'opera che solo apparentemente si divide in commedie e in drammi. Per questo non siamo d'accordo con Jean-Luc Godard, quando afferma che Wilder avrebbe “gettato alle ortiche i grandi soggetti umani”, pur ammettendo che tutti questi aggettivi fossero usati tra virgolette ironiche. I suoi soggetti non erano certamente più grandi ai tempi di Double Indemnity, Sunset Boulevard e Big Carnival. Sono invece rimasti più o meno gli stessi. In The Fortune Cookie come in Double Indemnity, dei personaggi ossessionati dal denaro cercano di ingannare le assicurazioni; la donna è fredda, calcolatrice, ingannatrice e rapace, ed è per lei che l'eroe accetta di compromettersi; e si ritrova pure, sotto una forma particolarmente odiosa, il personaggio dell'amico al quale l'eroe deve mentire per raggiungere il suo fine (…) Ma lasciamo qui le considerazioni etiche. Se consideriamo Wilder uno dei più grandi cineasti di Hollywood, è anche e soprattutto perché i suoi film così insoliti sono quelli di un autore completo. Non è soltanto uno dei rarissimi registi a mettere in scena soggetti originali, ma li scrive egli stesso; e chiunque sia il suo collaboratore (Charles Brackett per i drammi, I.A.L. Diamond per le commedie), i suoi dialoghi sono i più brillanti, assieme a quelli di Joseph L. Mankiewicz, del cinema americano. Quelli di Sunset Boulevard rimangono insuperati. E se talvolta le sue commedie peccano per abbondanza (Wilder non resiste mai al piacere di una parola, di un “one-liner” persuasivo anche quando risulta un po' gratuito o senza rapporto con la situazione), la maggior parte sono comunque più ricche di repliche eccellenti che qualsiasi successo di Broadway. La cosa più sorprendente è che non c'è niente di teatrale nei film di questo maestro del dialogo, secondo il quale “scrivere un film rappresenta l'80% del lavoro”. Le sue regie brillano per un senso del ritmo e un'acutezza visiva totalmente cinematografici (ha pure dichiarato: “È un tale supplizio scrivere e un tale piacere girare”). Wilder è anche, come quasi tutti i grandi, un realista, sempre attento all'autenticità del linguaggio, dell'ambientazione, persino nel cuore del burlesco: da qui l'interesse dei suoi personaggi, che rimangono sempre vivi e non perdono mai il contatto con il reale (…) L'opera di Wilder è il coronamento armonioso di influenze molto diverse (Ernst Lubitsch, per il quale scrisse, tra gli altri, la brillante sceneggiatura di Ninotchka e al quale era molto vicino nello spirito; e forse più alla lontana Erich von Stroheim, Orson Welles, il film noir) e di una visione personale allo stesso tempo molto europea e molto americana, dal momento che seppe assimilare la cultura americana, “americanizzarsi” senza mai perdere il senso dell'obiettività e dell'ironia che gli permisero di vedere e di dipingere gli Stati Uniti con maggior lucidità di chiunque altro (e questo è ciò che si chiama il suo cinismo) (…) Bertrand Tavernier/Jean-Pierre Coursodon, 50 ans de cinéma américain, Paris, Nathan, 1991, 2, pp.975-76 (traduzione di Michele Dell'Ambrogio) |
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