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AKIRA KUROSAWA 10 film di Kurosawa, sui trenta realizzati dal grande maestro giapponese nella sua lunga carriera: quanto basta per un omaggio, non certo per una retrospettiva esaustiva. Dopo tre stagioni dedicate a Bergman, i cineclub della Svizzera italiana hanno sentito il bisogno di cambiare continente, di immergersi in una cultura diversa. L'occasione è stata fornita dalla trigon-film, che oltre al grande lavoro di diffusione del cinema contemporaneo del sud del mondo, sta da qualche tempo inserendo nel proprio catalogo anche delle riedizioni di classici, fra cui figurano ben sette film di Kurosawa. Con l'aggiunta di qualche titolo che ancora circola fra gli altri distributori svizzeri abbiamo così costituito questo programma, che comprende parecchi capolavori e che dovrebbe andare incontro alle esigenze sia degli spettatori più anziani che non vedono questi film da parecchio tempo sia di quelli più giovani che non li conoscono affatto. Fra tutti i grandi del cinema giapponese, Kurosawa è stato sempre considerato il più “occidentale”. Ora, se è vero che la sua opera è anche marcata da forti influenze della letteratura europea (Shakespeare e i grandi romanzieri russi, su tutti Dostoevskij) e del cinema europeo e americano (Renoir, Ford, Visconti…), il regista rimane comunque profondamente ancorato alla cultura del proprio paese. Discendente da una famiglia di samurai, figlio di un ex ufficiale e insegnante di arti marziali, Kurosawa (1910-1998) si forma intellettualmente grazie al fratello Heigo, poi morto suicida nel 1932. “Il suo essere giapponese - scrive Fernaldo Di Giammatteo - non gli ha impedito di assorbire certi aspetti della cultura occidentale, ma in modo - si direbbe - strumentale, per farli suoi e restituirli profondamente alterati sullo schermo. Il dato nazionale predomina, anche a livello conscio”. Le memorabili scene di guerra contenute nei suoi film epici come I sette samurai o Kagemusha discendono, come ebbe a dire egli stesso, “dalle battaglie storiche giapponesi, le quali hanno ben poco a che fare con il Far West”. “Sono un regista - spiegava ancora - cui è accaduto di vivere in Giappone: faccio film in base a ciò che mi vedo intorno e alle mie esperienze di vita”. Kurosawa ha sperimentato tutti i generi, anche se forse per molti il suo nome è soprattutto legato ai film di samurai, alle ricostruzioni del passato giapponese. Ma è ancora lui a voler sfuggire dalle facili etichette con cui certa critica avrebbe voluto classificare la sua produzione: “Certi critici dividono le mie opere in due categorie (sempre questa mania di schematizzare): film in costume (Jidai geki) e film contemporanei (Gendai geki). Personalmente non vedo differenze tra queste due “categorie”. È il soggetto che impone la forma in cui verrà trattato. Alcuni li si può svolgere meglio e con più libertà ambientandoli nel passato. In un Jidai geki è più facile sottrarsi ai ricatti della censura produttiva e distributiva. In genere dopo un film moderno, soprattutto se impegnativo, sento l'esigenza di cambiare aria e mi cimento con soggetti più avventurosi e disinvolti (…) Il genere storico offre altri vantaggi: la spettacolarità, l'avventura, elementi essenziali al cinema. Io amo il cinema d'azione, raccontare storie. Un film deve prima di tutto emozionare, creare una simpatia”. Ma Kurosawa è un regista capace anche di approfondimenti psicologici, di introspezioni, che si possono ritrovare sia nei suoi film di ambientazione moderna sia in quelli storici, perché il samurai è uomo prima di essere guerriero, e anche uomo di profonda cultura. E i suoi film spettacolari sono comunque sempre segnati anche da una grande sensibilità teatrale, derivata dalla conoscenza delle due più grandi tradizioni giapponesi, quella del teatro Nô e quella del Kabuki. La nostra rassegna comincia con Rashômon (1950) ed esclude quindi i primi 10 film realizzati da Kurosawa a partire dal 1943, tra i quali ce ne sono anche di notevoli, come L'angelo ubriaco (1948) e Cane randagio (1949). Ma è proprio Rashômon che lo fa conoscere in Occidente, grazie al Leone d'oro di Venezia e all'Oscar per il miglior film straniero. E assieme a lui fa conoscere il suo attore feticcio, Toshiro Mifune, con cui Kurosawa ha realizzato ben 17 film consecutivi ( gli ultimi dei quali sono i primi 6 del nostro programma), prima della rottura avvenuta dopo la lavorazione di Barbarossa (1965), quando il regista non fu soddisfatto della sua interpretazione troppo manierata. Dopo lo scacco commerciale di Dodès'ka-dèn (1970), Kurosawa, amareggiato, tenta il suicidio: tornerà al lavoro, dapprima in Siberia, solo 5 anni dopo, firmando tre capolavori uno dietro l'altro (Dersu Uzala, Kagemusha e Ran). Ma degni di nota sono anche i suoi ultimi tre film, più pacati e intimisti, di cui presentiamo Sogni (1990) e Madadayo (1993), l'opera con cui si congeda dal suo pubblico e che Aldo Tassone ha definito “una sorta di originale antologia del mondo kurowasiano, una summa (non in senso espressivo) ricca di rime e citazioni interne” Michele Dell'Ambrogio, Circolo del cinema Bellinzona |
Ho fatto dei film realisti ma non penso di essere un vero realista. Ho un carattere troppo emotivo, non riesco a guardare la realtà con un occhio freddo. Inoltre sono profondamente legato alle arti plastiche, ho un culto spiccato per la bellezza. Penso che un bel film deve avere questa qualità misteriosa che è la bellezza cinematografica, un misto di perfezione e di emozione profonda che spinge la gente ad andare al cinema e la tiene inchiodata alla sedia. Primo, scrivere una buona sceneggiatura; se l'ossatura di una storia non è solidissima tutto è compromesso. Io ho sempre scritto personalmente i miei film insieme a dei collaboratori; se si vuol diventare registi, la prima cosa da fare è padroneggiare la scrittura. Le riprese non devono limitarsi a un calco di quanto è stato notato nello script, bisogna sempre lasciare una porta aperta al caso; i momenti più belli di un film sono quelli in cui qualcosa comincia improvvisamente a dilatarsi, a crescere (…) Sono molto maniaco per le scenografie e gli ambienti. La qualità del “decor” influenza la qualità dell'interpretazione degli attori. Se devi dire a un attore “non pensare all'ambiente”, come potrà muoversi in maniera naturale? (…) Nei miei film, il montaggio è un momento creativo fondamentale, per questo li ho sempre montati personalmente, giorno per giorno (…) Il montaggio è veramente un lavoro appassionante; non è un semplice “ritocco” finale, è un momento invece in cui si inspira la vita in un'opera (…) Ogni regista ha il suo metodo con gli attori: io non li dirigo soltanto durante le ripetizioni ma anche fuori del set, vivendo con loro, discutendo insieme. Credo molto nel contatto giornaliero. Sul set mi limito a dare qualche suggerimento. Il segreto della direzione d'attori sta nel “convincerli”. Non bisogna mai trattarli come marionette. Akira Kurosawa da Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Milano, L'Unità /Il Castoro, 1995 |
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