La forteresse
(Svizzera/2008)
regia: Fernand Melgar
- fotografia: Camille Cottagnoud; montaggio: Karine Sudan; formato: 35mm; durata: 100
- Presentato al 61° Festival del Film di Locarno nella sezione Concorso cineasti del presente
- Pardo doro Cineasti del presente C.P.Company
Le prime immagini del documentario sono quelle provenienti dalle videocamere di sorveglianza del centro di registrazione per i richiedenti lasilo di Vallorbe, Svizzera francese. Si organizza un trasporto (dislocazione) di richiedenti verso un altro centro di registrazione, quello di Chiasso in Ticino,
Svizzera italiana. Almeno in questo caso le comunità linguistiche collaborano. Il titolo La forteresse fa riferimento sia allo stabile, una sorta di, appunto, fortezza che protegge chi è fuori da chi è dentro, e immaginiamo anche alla fortezza Europa, complesso sistema di centri di controllo, raccolta, smistamento, espulsione, ammissione, carcerazione ecc. dei migranti che affollano durante tutto lanno le vie di accesso terrestri, aeree e marittime alla vecchia e democratica Europa.
Per alcuni spettatori un mediocre prodotto televisivo, troppo montato, troppo poco diretto, per altri principalmente la scoperta di un mondo sconosciuto. Tra questi due estremi si muove il film di Fernand Melgar, già presente a Locarno con il documentario Exit, lavoro sullassociazione omonima che si occupa di eutanasia e di aiuto alla morte. Al di là dei discorsi strettamente cinematografici, Melgar ci accompagna nella prima visita organizzata allinterno di un centro per richiedenti asilo in Svizzera. Ad attestare linteresse per la prima proiezione pubblica la presenza in sala della ministra Eveline Widmer-Schlumpf responsabile del Dipartimento federale di giustizia e polizia da cui il centro dipende.
Melgar vuole sapere, per sua ammissione, cosa è cambiato nel paese che lo ha accolto molti anni fa anche lui figlio di immigrati dallentrata in vigore nel gennaio 2008 delle nuove e restrittive leggi sullasilo e sugli stranieri, leggi votate a grande maggioranza dal popolo svizzero (risultato 7 a 3, un quasi cappotto). Le storie vere o verosimili dei migranti si susseguono, la vita del centro viene passata alla lente della camera, mentre i colloqui con i responsabili che decideranno della sorte dei richiedenti avanzano.
Ci rendiamo conto che gli intervistatori si attendono dagli intervistati storie reali, ma reali a loro insindacabile giudizio. Questa storie è troppo perfetta, troppo verosimile, questaltra è troppo confusa, questaltra ancora fa acqua nella prima parte mentre nella seconda tiene bene.
Ci si rende presto conto che a mancare è lumanità, e che travestita di comprensione e condivisione cè la gestione pura e semplice di situazioni e vite alla deriva, in questo centro ci si attiene al mandato federale, come potrebbe essere altrimenti. Poi tutti a casa con il cuore gonfio.
Questa Svizzera ci ricorda Un vivant qui passe lintervista di Claude Lanzmann ad un ispettore svizzero della Croce Rossa in visita al campo di TheresienStadt durante la Seconda Guerra mondiale. Un campo modello un territorio-finzione dove il responsabile dellorganizzazione umanitaria vede persone trattate bene, pasciute e contente, che organizzano rappresentazioni teatrali, concerti, feste. Al suo rientro stilerà un rapporto positivo sulla detenzione degli ebrei nei campi.
La fine come linizio, un altro viaggio organizzato verso i diversi centri di accoglienza dislocati negli altri cantoni, le immagini sgranate, astratte delle camere di sorveglianza, il cancello della fortezza che si apre. Protetta da un vetro di sicurezza una segretaria del centro congeda cortesemente un oramai ex richiedente asilo. Lei deve lasciare il suolo svizzero entro le prossime 24 ore. Arrivederci e grazie.
(Donato Di Blasi)
Albert Maysles, considerato liniziatore del Reality Cinema statunitense e autore di opere fondamentali come Salesman (1968) e Grey Gardens (1975) (vedi Rapporto Confidenziale numerotre, marzo 2008) elenca, tra i sei fondamenti imprenscindibili del cinema documentario, il distanziarsi da un punto di vista; il filmare eventi, scene e sequenze evitando interviste, narrazione e ospiti nonché il registrare lesperienza direttamente, senza controllarla e senza metterla in scena.
Del resto, il cinema documentario è uno tra i generi più complessi in quanto fare trasparire la propria presenza è già facile quando si tenta di minimizzare il proprio intervento in fondo il montaggio è già di per se sufficiente per alterare la realtà - figuriamoci quando si vuole dimostrare una tesi precostituita.
Fernand Melgar, regista svizzero autodidatta di indubitabile impegno ma capace di avvicinarsi con curiosità e senza pregiudizio alla materia che tratta, si attiene a queste regole nel suo La forteresse (La fortezza), in cui si addentra con la sua camera per la prima volta senza restrizione alcuna in un centro di registrazione per richiedenti asilo, nella fattispecie quello di Vallorbe, nella Svizzera francese.
Il punto di partenza è il regista stesso a dichiararlo - è il tentare di comprendere la paura dimostrata dal popolo svizzero quando, nel 2006; ha votato compatto si parla del 68% dei votanti - a favore di un inasprimento della legge sul diritto dasilo, che di fatto ha trasformato una legge già esistente nella più restrittiva dEuropa (con effetti quali il negare lassistenza sociale ai richiedenti cui la domanda viene respinta, la possibilità di effettuare perquisizioni senza necessità di un mandato, di condannare al carcere fino a due anni chi non lascerà il Paese, eccetera
).
Melgar, già autore, tra gli altri, di Classe daccueil (1998, sullintegrazione dei giovani stranieri), Exit, le droit de mourir (2005, sulleutanasia), si è quindi recato nel centro di registrazione di Vallorbe per testimoniare liter che i richiedenti asilo affrontano prima che sia loro concesso o meno lo status di rifugiati.
I punti di vista sono molteplici: si va da quello di chi registra i loro dati appena giunti al centro, a quello di chi il centro lo gestisce, da quello di chi dovrà giudicare i loro incarti, , e quindi le loro storie personali, emettendo o meno una sentenza di accoglimento, a quello dei richiedenti stessi.
Non essendo un film di propaganda e non tentando di fare cambiare opinione a nessuno, La forteresse andrebbe visto da chiunque, indipendentemente dalle sue idee sullargomento. Non è richiesto di prendere una posizione a priori sulle leggi di cui il centro di registrazione è già di per se un effetto, ma offre uninedita possibilità di conoscere la situazione.
Le storie narrate sono spesso drammatiche, raccontano di persone che sperano in una vita migliore quando non addirittura, e capita spesso, nella sopravvivenza e le provenienze sono tra le più disparate.
Sono storie di umanità, di comprensione, di solidarietà ma anche di burocrazia, quella burocrazia che tende a trasformare le persone in meri nomi su un foglio, privi quindi dello spessore che la semplice carta non potrà mai avere.
Melgar registra le varie posizioni, riuscendo a smontare il tanto amato da alcuni luogo comune (tanto che la consigliera federale Eveline Widmer-Schlumpf ha lodato il film a Locarno sottolineandone il realismo), evitando la tentazione del pathos e il ricorso al titillamento dei sentimenti più elementari, riuscendo a proporre un documentario che non solo racconta la vita allinterno del centro, ma riesce anche a raggiungere lo scopo dichiarato inizialmente: quello di mettere a nudo le paure di molti.
In un tempo dominato dalla semplificazione dellopposizione di bene e male, La forteresse non impone allo spettatore una linea di pensiero e offre, con grande onestà, spunti di riflessione profondi e per questo andrebbe visto da tutti, studenti delle scuole medie compresi.
(Roberto Rippa)
Larticolo è pubblicato su: Rapporto Confidenziale.
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