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PRESENTAZIONE | ||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Lubitsch ha parlato una volta, con Herman G. Weinberg che sul regista berlinese e hollywoodiano ha scritto un bel libro (The Lubitsch Touch, 1968), proprio di quel suo “tocco” inimitabile di cui era il solo a conoscere il segreto. E ovviamente ne ha parlato in maniera lubitschiana, cioè facendo uso di quello stesso touch. Ecco: “La sapete la storiella del mendicante che trova una moneta d'oro nel cappello con cui chiede l'elemosina? L'indomani, quando porta la moneta in banca, gli dicono che è falsa. Comunque, la sua bella impressione quella moneta la fa ugualmente. Così lui decide di rifirarla a una prostituta che lavora nel suo quartiere. Passano la notte insieme, poi al mattino lui fruga nella tasca per pagare la ragazza e la tasca ha un buco… Aveva perduto la moneta. Furiosa, la ragazza gli tira addosso tutto quello che le capita sotto mano. 'Càlmati, càlmati', le grida lui. 'Era solo una moneta falsa!'”. Dice Weinberg che Lubitsch, ridendo di gusto, concludeva: “Un bell'esempio di Lubitsch touch, no?”. Il “tocco” lubitschiano sta nel passaggio, veloce e inatteso, da una situazione (il poveraccio felice per aver trovato la moneta d'oro nel cappello) al suo opposto (in banca gli dicono che la moneta è falsa), poi a un tentativo di venirne fuori onorevolmente cercando di fregare qualcun altro (usarla per pagare la ragazza), infine e soprattutto nel salto conclusivo e repentino dalla visione generale (lui che cerca la moneta) all'estrapolazione ingigantita di un particolare (il buco nella tasca) che cambia la direzione di senso dell'intera scena, che si conclude con una battuta contrappuntistica che vorrebbe rimediare e che invece non fa che peggiorare la situazione (era solo una moneta falsa…). Il tocco lubitschiano sta nello sfruttamento, anche iterativo, di una situazione e nell'esaltazione dei dettagli. E questo è il Lubitsch che tutti conoscono: l'indiscusso maestro della commedia, della frivolezza, dell'invenzione e dell'allusione: del touch. Maestro delle porte chiuse che, nascondendo, svelano. Maestro del gioco sospeso tra il mostrare e il velare, del pendolo tra il malizioso e il malinconico, tra l'esilarante e il profondo, il geometrico e l'effimero. Si sa che c'è anche un altro Lubitsch, di cui si parla meno, un Lubitsch drammatico che guarda alle tragedie della storia. Tragedie e storia che vengono collocate, anch'esse come le commedie, su un palcoscenico. Ad attrarre Lubitsch è la teatralità della scena, tragica o comica che sia, e infatti molti dei suoi film derivano da un'operetta o da una pièce teatrale. Ad affascinarlo è il gioco delle entrate e delle uscite, delle porte che si aprono e si chiudono, delle stanze che danno su altre stanze, delle finestre da cui si guarda fuori e da cui la macchina da presa può, non vista, guardare dentro. (da Bruno Fornara, Non essere o essere? Ovvero il touch e la storia), in Ernst Lubitsch, a cura di Arturo Invernici e Angelo Signorelli, Bergamo Film Meeting-Edizioni di Cineforum, 2005) Sulla carta una sceneggiatura di Lubitsch non esiste, nemmeno dopo la proiezione ha più alcun senso, tutto accede mentre si guarda il film. Un'ora dopo averlo visto, o forse rivisto perla sesta volta, vi sfido a raccontarmi la successione delle scene di To Be or Not to Be (Vogliamo vivere, 1942): è matematicamente impossibile. Noi, il pubblico, eravamo là, nell'ombra, la situazione sullo schermo era chiara, era tesa fino al limite della rottura tanto che, per rassicurarci, anticipiamo la scena seguente ricorrendo evidentemente ai nostri ricordi di spettatori, ma Lubitsch stesso aveva già passato in rassegna tutte le soluzioni preesistenti per utilizzare quella mai adottata prima, l'impensabile, l'enorme, appunto, come tutti i geni dominati dallo spirito di contraddizione, squisita e sconcertante. Scoppi, sì, scoppi di risa, perché, scoprendo la “soluzione Lubitsch”, il riso, letteralmente, scoppia. (da François Truffaut, Lubitsch era un principe (1968), in I film della mia vita, Venezia, Marsilio, 1978) |
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