|
||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
TROUBLE IN PARADISE Mancia competente, 1932 Soggetto e sceneggiatura: Samson Raphaelson, dalla commedia The Honest Finder di Laszlo Aladar; fotografia: Victor Milner; musica: Frank Harling; interpreti: Kay Francis, Miriam Hopkins, Herbert Marshall, Charlie Ruggles, Edward Everett Horton, C. Aubrey Smith, Robert Greig, Leonard Kinskey; produzione: Ernst Lubitsch per Paramount. Due ladri si incontrano in un grande albergo a Venezia. Si colgono reciprocamente sul fatto, e subito solidarizzano: lei - Lily - si fa passare per contessa, lui - Gaston - per barone. Si derubano a vicenda. Si ritrovano a Parigi, nella bella villa di Mariette Colet, dove molti vanno e vengono, attratti non solo dall'avvenenza della signora ma anche dal denaro che possiede. Gaston e Lily riescono a farsi assumere come segretario e dattilografa, e cominciano a tramare per mettere le mani su tutto, e in una volta sola (la volta in cui si sistemeranno). François Filiba, pretendente di Mariette, riconosce in Gaston l'uomo che lo derubò a Venezia. Non solo. L'amministratore della fabbrica di Madame Colet, smaschera Gaston mostrandogli una serie di prove della sua attività criminale. Ma Gaston risponde documentando minuziosamente tutti i furti che l'amministratore - il serafico Giron - ha compiuto in tanto tempo ai danni dell'azienda. Sono pari, e dunque reciprocamente inoffensivi. Intanto Madame Colet, colpita dal fascino del segretario, lascia cadere ogni ritegno e gli si offre, pur sapendo chi è. Gaston, che è a modo suo (il modo giusto dopotutto) un gentiluomo e ha alle costole l'innamorata Lily, cerca di defilarsi. Quando le cose sembrano precipitare, è proprio Lily a costringere Gaston a riprendere servizio come ladro (già aveva rubato una collana di perle, a madame, ma l'aveva dovuta restituire). Lo fa. Così, la signora - delusa e furente - lo caccia, insieme a Lily. Partono. Prendono un taxi e vanno alla stazione, in cerca di nuove avventure. E si borseggiano a vicenda, come sempre hanno fatto (stavolta è per la collana di perle che, alla fine, madame aveva regalato a Lily). Ernst Lubitsch asseriva di aver realizzato con questo film il suo miglior risultato nel campo della commedia. Ricorrendo all'ambientazione (quasi tutta in interni) che fu giudicata “l'ultimo grido in fatto di design”, alla sceneggiatura serrata come una “partita di tennis” (è il giudizio di Georges Sadoul), all'attenzione costante per i particolari che riecheggiano, come ogni volta, il mondo viennese della sua infanzia, il regista imbocca senza esitazioni la strada della sophisticated comedy e in questo caso proprio di prototipo di genere sembra possibile parlare. È palese la derivazione letteraria di molti degli elementi adottati - si è parlato soprattutto di Marivaux - ma l'anomalia della costruzione narrativa, la persistenza del fenomeno al di là di Lubitsch e del mercato americano, la compenetrazione di ogni tipo di influenza in un insieme unico fanno di questo tipo di stile un modello, al pari degli altri più che frequentati dal cinema di Hollywood. Tra le condizioni necessarie perché il “cocktail Lubitsch” riesca, c'è naturalmente la perfetta integrazione tra recitazione e sonoro, il ritmo intrinsecamente musicale dell'azione. In questo caso, sfruttando la recente scoperta tecnica, il regista fa comporre a Frank Harling una partitura che percorre tutto il film scandendo ogni scena. L'accoglienza del pubblico e della critica fu assai calorosa. Si parlò di “grande sagacia narrativa”, di “innumerevoli spunti di umorismo”, di “opera scintillante”, di un “quasi ininterrotto sottofondo musicale che sottolinea e commenta come meglio non si potrebbe l'azione”. Alla fine, la tematica più tipica di Lubitsch viene in luce, chiaramente. I due ladri se ne devono andare, la loro è stata un'illusione. “Questo perché i meccanismi dell'inclusione, del furtivo ingresso nel paradiso, hanno ormai ceduto il passo a quelli dell'esclusione, della cacciata dall'Eden: e Lubitsch ci ha dimostrato ancora una volta, ma forse nel modo più lucido possibile, che il cinema è di per sé sostituzione, vacuo compenso, vita d'ombre e d'immagini riflesse.” (Guido Fink) |
||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||