Se la Nouvelle Vague francese costituì una frattura, il nuovo cinema italiano fu piuttosto una rinascita. Certamente si tratta di un fenomeno generazionale come in Francia, ma i giovani cineasti che giungono al lungometraggio non si schierano contro i loro predecessori: non vogliono sbarazzarsi di Visconti, Fellini, Antonioni, Rossellini e De Sica, come i registi francesi che condannano invece Autant-Lara o Delannoy. Anzi, affermando la loro personalità, spingono i maestri a superare se stessi sulla via del neorealismo (Il generale della Rovere, Roberto Rossellini, 1959; La ciociara, Vittorio De Sica, 1960; Rocco e i suoi fratelli, Luchino Visconti, 1960), e addirittura a cambiare radicalmente stile (La dolce vita, Federico Fellini, 1960, o L'avventura, Michelangelo Antonioni, 1960). Persino i generi popolari di serie B come il filone mitologico e il fantastico acquistano nuovo vigore grazie a registi già affermati, quali Vittorio Cottafavi (Ercole alla conquista di Atlantide, 1961) e Riccardo Freda (I giganti della Tessaglia, 1961), o nuovi, quali Mario Bava (La maschera del demonio, 1960).
La commedia, anch'essa fiorente dalla fine degli anni Quaranta (i film di Totò) e dall'inizio del decennio successivo (la serie dei Pane, amore...: Pane, amore e fantasia, Luigi Comencini, 1953), si rigenera a partire da I soliti ignoti (Mario Monicelli, 1958) e Il sorpasso (Dino Risi, 1962). I nuovi autori nascono dunque da un humus estremamente fertile invece di praticare, come in Francia, la politica della terra bruciata.
Questi nuovi cineasti hanno tutti personalità già affermate: Ermanno Olmi (1961: Il posto, neo-umanesimo alla De Sica sugli umili abitanti delle grandi metropoli del ), Vittorio De Seta (1961: Banditi a Orgosolo, documentario-fiction sul banditismo e sulla povertà della Sardegna), Pier Paolo Pasolini (Accattone, 1961, Mamma Roma, 1962, e Il Vangelo secondo Matteo, 1964, propongono una rilettura del neorealismo), Francesco Rosi (Salvatore Giuliano, 1962; Le mani sulla città, 1963: grandi soggetti trattati con un'ispirazione epico-critica e una narrazione in forma di veemente denuncia), Valerio Zurlini (1960: La ragazza con la valigia, film intimista la cui psicologia emerge dalle condizioni di vita), Bernardo Bertolucci (La commare secca, 1962; Prima della rivoluzione, 1964: film molto estetizzanti e brillanti che propongono una visione fortemente autobiografica della storia, venata di lirismo psicanalitico), Paolo e Vittorio Taviani (1962: Un uomo da bruciare, realizzato in collaborazione con Valentino Orsini, mescolanza di cultura toscana e di fede comunista, espressa con una distacco formale nei confronti di personaggi appassionati e problemi molto drammatici), Gianfranco De Bosio (1963: Il terrorista, sull'etica e sulla pratica di un impegno), Marco Ferreri (1963: L'ape regina, farsa macabra in cui il riso si raggela in un violento anarchismo sociale sotteso all'aneddoto), Marco Bellocchio (1965: I pugni in tasca e le sue provocazioni biografiche e blasfeme), Giuseppe Fina (1962: Pelle viva, descrizione dolorosa e partecipe di esistenze spezzate dal lavoro, in cui soltanto l'amore costituisce motivo di speranza), Elio Petri (1961: L'assassino, primo film di una lunga serie politica). In realtà se ne potrebbero citare molti altri, tanto è ricca questa produzione: Damiano Damiani, Francesco Maselli, Giuliano Montaldo, Gillo Pontecorvo, Florestano Vancini, Gian Vittorio Baldi, Ugo Gregoretti, Nanni Loy...
La italiana esplode davvero al festival di Venezia del 1962, in cui è presente in tutte le sezioni (e ottiene il Leone d'oro con Cronaca familiare di Valerio Zurlini). Questo superamento del neorealismo rispettoso di Antonioni e/o di Visconti avviene nel momento in cui sta per concludersi la grave crisi degli anni 1958-59. Il nuovo cinema è spesso marxista di fronte ai problemi contemporanei (il Sud, le città, la politica), ma anche estremamente estetizzante sotto il profilo del piano-sequenza (Bertolucci), del racconto (Petri, Rosi, Pasolini) o della fotografia (Zurlini). Inoltre è meno omogeneo che in Francia; tra il 1961 e il 1965 si succedono le , e le conferme più clamorose si riscontrano anzi nella seconda parte del decennio con La strategia del ragno (Bertolucci, 1969) e Uccellacci e uccellini (Pasolini, 1965). Gli psicologi (Olmi e Zurlini) continuano a descrivere minuziosamente il contesto sociale, e sono spesso i politici (Rosi, i Taviani o Petri) a rivelarsi i più innovativi dal punto di vísta narrativo. Quanto ai teorici (Pasolini), studiano nel contempo marxismo e semiologia, senza dimenticare di essere regionalisti e poeti.
Il fenomeno sorprendente è proprio questa ricchezza, questo spessore delle opere. Certi film guardano a Rouch (Banditi a Orgosolo), altri all'epopea di Ejzenstejn (Salvatore Giuliano). I registi di sinistra praticano la commedia corrosiva (Ferreri) invece di comportarsi come commissari politici di un ordine nuovo.
Il neorealismo interiore non si limita più ad Antonioni, ma viene adottato anche da Olmi o Fina, e si mantiene in delicato equilibrio tra spiritualismo e approccio sociologico. Tutti questi film sono del resto opere nel senso pieno del termine e non provocazioni o pamphlet, compresi quelli di un Bellocchio o di un Petri.
Bisogna tuttavia ricordare che quantitativamente questo giovane cinema è un fenomeno marginale: il cinema italiano produce soprattutto film mitologici (da venti a trenta all'anno, tra cui cinque o sei Maciste), commedie e : genere inaugurato nel 1964 da Per un pugno di dollari di Sergio Leone, interpretato da un attore americano allora sconosciuto, Clint Eastwood.
* testo tratto da R. Prédal, Cinema: cent'anni di storia, Milano, Baldini & Castoldi, 1996