La Nouvelle Vague francese
L'affermazione di Truffaut secondo cui , è forse solo un paradosso, ma certo sembra difficile rinvenire dietro quella formula fortunata - coniata dalla giornalista Françoise Giroud - i caratteri di una scuola, corrente o movimento unitario. In realtà, dietro l'etichetta nouvelle vague non si nasconde solo l'aggregazione occasionale di un gruppo di giovani accomunati dal fatto di aver esordito nel cinema quasi contemporaneamente verso la fine degli anni '50 ricorrendo ad alcuni identici elementi superficiali: per esempio, la formula produttiva, il fatto cioè di aver portato il costo medio di produzione di un film dai 200 milioni del periodo ai 50 milioni che Malle, Chabrol, Truffaut e Godard impiegarono per esordire; oppure il gusto della provocazione contro il 'cinéma de papa', l'irriverenza cioè con cui i grandi del cinema francese contemporaneo (Duvivier, Carné, Clair, Clouzot, Autant-Lara, ecc.) venivano attaccati dalle pagine dei 'Cahiers du Cinéma' e che era la stessa irriverenza con cui regole, tecniche e modi di produzione del 'cinema di qualità' erano irrisi e trasgrediti dai film della nouvelle vague; o, ancora, la capacità di 'essere contemporanei', il fatto cioè di portare finalmente sullo schermo umori, ambienti, personaggi, tensioni e contraddizioni della generazione parigina del dopoguerra.
E' indubbio che questi elementi sono tutti presenti nel gruppo di film che sconvolse il panorama del cinema francese alla fine degli anni '50: film come... Et Dieu créa la femme (Piace a troppi, 1956) di Roger Vadim, Ascenseur pour l'échafaud (Ascensore per il patibolo, 1957), di Louis Malle, Lettres de Siberie (Lettere dalla Siberia, 1957) di Chris Marker, Le beau Serge (Il bel Sergio, 1957), di Claude Chabrol, Les quatre-cents coups (I quattrocento colpi, 1959) di François Truffaut, Le signe du Lion (Il segno del Leone, 1959) di Eric Rohmer, Hiroshima mon amour (id., 1959) di Alain Resnais, À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro, 1960) di Jean-Luc Godard, Paris nous appartient (Parigi ci appartiene, 1958-60) di Jacques Rivette. Si tratta però di indicazioni incapaci di configurare una progettualità comune: si tratta dei mille rivoli di singole poetiche e stili tra loro inassimilabili. Tanto più che dopo il film d'esordio molti autori della nouvelle vague diventeranno il nuovo valore remunerativo dell'industria cinematografica francese (in particolare Vadim, Chabrol, Malle, ma anche lo stesso Truffaut), che autori come Marker e Resnais accentueranno ancora la loro posizione già marginale, e che le singole ricerche si svilupperanno secondo linee sempre più autonome. Se ci allontaniamo però dal discorso sulle poetiche e sugli stili, possiamo individuare opere ed autori che affondano le loro radici in un certo clima culturale cinematografico comune, in un retroterra fatto di gusti, passioni, idee teoriche, attitudini critiche, e atteggiamenti complessivi che riguardano sempre, e innanzitutto, il cinema. E' questo retroterra che costituisce l'originalità e l'unitarietà dell'esperienza della nouvelle vague. Nasce dall'esercizio critico e teorico di André Bazin, si nutre della vita di una rivista come i 'Cahiers du Cinéma', e si sostanzia di quel diverso consumo di cinema che la frequentazione massiccia di cine-club, cineteche e sale d'essai aveva, nel corso degli anni '50, indotto.
Nel 1951 esce il primo numero dei 'Cahiers du Cinéma'. Il comitato di redazione allinea Bazin, Lo Duca, Doniol-Valcroze e altri; molto presto però si fanno notare i nuovi arrivi: Rohmer, Truffaut, Godard, Chabrol, Rivette. Il tono degli interventi è provocatorio, sganciato dai canoni tradizionali della critica cinematografica: il riassunto, la parafrasi, l'interpretazione. Prevalgono i giudizi di gusto ancorati alle tecniche e ai procedimenti del linguaggio cinematografico. Il cinema amato e difeso è soprattutto quello americano: Welles davanti a tutti, ma anche Hitchcock, Hawks, Ray, Sirk e tanti altri 'professionisti' inseriti nella macchina produttiva hollywoodiana. Grandi entusiasmi suscita Rossellini, qualcuno stravede per Bergman. Due unici amori all'interno del cinema francese: Renoir e Bresson. Il Resnais dei cortometraggi è già un compagno di strada, la Varda di La pointe courte (La punta corta, 1950), una rivelazione. Tutti questi gusti, così disparati, possono essere accomunati sulla base di tre nozioni chiave intorno a cui ruota l'attività critica dei 'Cahiers' e, successivamente, l'attività cinematografica della nouvelle vague. La prima è la nozione di 'autore' o meglio di 'politique des auteurs' che non è un 'parti pris' solo critico ma anzitutto teorico.
Affonda le radici nella convinzione (presente nel testo di Astruc: 'Nascita di una nuova avanguardia: la caméra-stylo', scritto nel 1948 e ripreso poi in molti scritti di Bazin, Truffaut, Godard, ecc.) di dover considerare finalmente, e a tutti gli effetti, il 'cinema come un linguaggio': cioè non come una semplice operazione di 'messa in scena' che si limiti a tradurre sul piano visivo idee, situazioni, sentimenti e storie, già espressi a livello di sceneggiatura, ma come una vera e propria operazione di 'scrittura', che possa consentire all'autore che se ne serve di esprimersi in prima persona. Ed è solo da questo presupposto che nasceranno il bisogno di 'essere contemporanei', di personalizzare al massimo il discorso sfiorando, spesso, il diario e l'autobiografia le innumerevoli innovazioni linguistiche (il rifiuto di attori professionisti abituati ad una recitazione standardizzata, il ricorso all'improvvisazione, la tendenza a 'far sentire' la m.d.p.) ricorrenti nei film d'esordio ricordati.
Ma questa nozione di autore va ulteriormente precisata. Se essa infatti si applica non solo a Bresson, Welles, Bergman, Rossellini, ma anche ad Hawks e Hitchcock - ossia a registi che partecipano sino in fondo della rigida divisione del lavoro, della logica dei generi, e delle convenzioni drammaturgiche 'classiche' - è perché il suo statuto abbandona l'universo letterario di provenienza (l'autore è colui che esprime un proprio originale mondo poetico) per entrare direttamente in quello cinematografico (l'autore è colui che padroneggia una tecnica e si esprime attraverso uno stile). Esiste dunque un presupposto teorico: 'il cinema è un linguaggio', che si traduce in ipotesi critica: 'il cinema da difendere è quello d'autore', che si traduce a sua volta in formula produttiva: 'emergere all'interno dei propri film come coscienza tecnico-stilistica'. Tutte le scelte linguistiche che accompagnano ossessivamente i film della nouvelle vague (l'alternanza degli obiettivi sugli stessi oggetti, i controluce con i barbagli in macchina, i raccordi appositamente sbagliati, i movimenti di macchina incerti e sobbalzanti, gli interminabili piani-sequenza, ecc.) muovono dalla volontà di lasciar trasparire le tracce dell'autore, il suo lavoro di scrittura, la sua possibilità di esprimersi, 'in forma di tecnica'.
La seconda nozione-chiave si trova nei saggi dedicati da Bazin a Welles, Rossellini e Bresson (così come in quelli dedicati agli stessi autori da Truffaut, Rohmer, Rivette e Godard), insieme ai suoi articoli più propriamente teorici ('Ontologia dell'immagine fotografica', 'Evoluzione del linguaggio cinematografico'). In essi si parla di cinema come 'rivelazione del reale', di rifiuto del montaggio e delle inquadrature 'deformanti' e di strutture narrative che devono 'mostrare' e non 'dimostrare', a partire dall'esigenza non di tornare su posizioni naturalistiche ma di fondare 'in termini estetici' la nozione di realismo. Così, il cinema per Bazin, può diventare un linguaggio solo rifuggendo dalla tentazione di essere anzitutto una lingua. Di più: esso si presenta costitutivamente come 'linguaggio della realtà'. Per questo il cinema non deve utilizzarla - questa realtà - come un materiale grezzo e plasmabile, come un repertorio di segni astratti, ma deve costruire le proprie potenzialità linguistiche sulla base di quello che già la realtà in quanto tale possiede: i gesti, i comportamenti, le fisionomie, gli ambienti, i rapporti tra gli oggetti e quelli tra i personaggi e gli oggetti, ecc. E tutto questo nel rispetto di due caratteristiche fondamentali della realtà: la durata e l'ambiguità. In tale senso vanno molte pagine di Bazin dedicate al piano-sequenza, una tecnica particolarmente idonea ad esprimere questa concezione del cinema. E non a caso il piano-sequenza costituisce la tecnica primaria di molto cinema della nouvelle vague. Un cinema reso denso dalle fisionomie e dalle camminate interminabili di Jeanne Moreau, Jean-Pierre Léaud, Jean-Paul Belmondo e Anna Karina. Un cinema ossessivamente pieno di gesti, tic, comportamenti e ambienti che 'parlano', di idee, sensazioni e emozioni scritte direttamente in uno spostamento di macchina, attraverso un ambiente che 'dura', in un rapporto spaziale tra i personaggi. Un cinema in cui la felicità 'è una danza', la paura un gesto ripetuto della mano, e il destino la sagoma nitida di un corpo.
L'ultima nozione-chiave che va sottolineata è quella relativa al rapporto tra pratica-critica e pratica-cinematografica, rapporto inscindibile, e carico di una portata enorme. Non tanto perché l'attività critica si presenta come importante momento di preparazione all'attività registica di molti autori nouvelle vague, ma perché essi continueranno ad esercitare la loro funzione critica come dimensione costitutiva dei loro film.
Basta pensare alla tecnica della citazione di film, autori, personaggi ed atmosfere desunti dall'universo cinematografico (con le forme vistose che raggiunse in Le beau Serge: James Dean; in A bout de souffle: Humphrey Bogart; in Ascenseur pour l'échafaud: le atmosfere di Bresson e Antonioni; in Le beau Serge: ancora le atmosfere di Bresson); oppure alla colta coltivazione di molti generi del cinema classico americano: come il noir- A bout de souffle, Tirez sur le pianiste (Tirate sul pianista, 1960) di Truffaut, Le petit soldat (id ., 1960) e Bande à part (Per conto proprio, 1964) di Godard - e la commedia musicale - Une femme est une femme (La donna è donna, 1962) di Godard. O si pensi, ancora, alla riproposta di alcuni procedimenti ormai caduti in disuso: iride, tendina, dissolvenza incrociata, ecc. Ci si muove insomma all'interno di una nuova consapevolezza storico-critica. Scrive Godard: . Dunque, con la nouvelle vague, l'immagine che il cinema ci rinvia di sé è quella di un linguaggio cosciente della propria storia, avvertito rispetto alla funzione delle proprie tecniche, 'autoriflessivo'. Ed è solo questa l'eredità che la nouvelle vague ha lasciato al cinema che l'ha seguita. Se è vero infatti che essa, come effetto immediato, stimolò ed accelerò una dinamica trasformativa che coinvolse varie cinematografie nazionali (inglese, italiana, tedesca, ungherese, cecoslovacca, americana e brasiliana) tutte raggruppate sotto l'etichetta di 'nuovo cinema degli anni '70', è anche vero che il suo effetto più a lungo termine fu quello di avere definitivamente aperto la strada al 'cinema moderno'.
Analizzato in questa direzione anche il discorso sugli antecedenti e sui 'compagni di strada' della nouvelle vague assume una prospettiva diversa. Infatti, nelle elaborazioni critico-teoriche che abbiamo visto emergere negli anni '50, si avvertono certamente gli echi dell'esistenzialismo sartriano, dell'estetica del nouveau roman, e, soprattutto, della fenomenologia di Merleau-Ponty (il cui saggio 'Il cinema e la nuova psicologia' trova più di un riscontro nelle ipotesi di Bazin). Si tratta però di una serie di spunti che funzionano come 'orizzonte generale' rispetto a quel retroterra specifico la cui dinamica in atto va esclusivamente dal cinema al cinema, e i cui custodi rimangono sostanzialmente solo gli autori che si muovevano intorno alla redazione dei 'Cahiers du Cinéma'. Non esiste dunque un altro gruppo di autori che possano propriamente essere definiti come 'nouvelle vague de la rive gauche'. Quando si ricordano Resnais, Marker, Varda, Robbe-Grillet, Duras, Cayrol o Colpi, occorre notare che diversa era la loro formazione, legata principalmente alla letteratura e all'impegno politico. Diverse erano le loro ossessioni, segnate dalla guerra, dall'assurdo del mondo contemporaneo e dalla ricerca dei meccanismi della memoria e dell'oblio. Diverso era il loro modo di avvicinarsi al cinema: linguaggio strumentale e non 'luogo' in cui fondare una morale oltre che una estetica. Certo, in molti loro film (soprattutto in quelli di Resnais e Varda) i redattori dei 'Cahiers' avvertirono una libertà e una novità espressive molto vicine a quell'idea di cinema che essi stavano tentando di far emergere; ma si trattava di una consonanza ideale: quella stessa consonanza che li induceva a cercare i loro 'padri' nel cinema del presente e in quello del passato (Welles, Renoir, Bresson, Rossellini) e a convincersi che il cinema 'moderno' aveva un cuore antico.
testo tratto da F Di Giammatteo, Dizionario universale del cinema, Roma 1985