CIRCOLO DEL CINEMA DI BELLINZONA

home


La Nová Vlna cecoslovacca

E' noto come nová vlna (traduzione del francese nouvelle vague) quell'insieme di esordi che, concentrati soprattutto negli anni 1962-65, provocarono un radicale ricambio - quantitativo e qualitativo - nel cinema cecoslovacco. Non è un movimento codificato ma un massiccio afflusso di nuovi quadri e nuove idee sul fare cinema che, attraverso la ribalta dei festival internazionali (in modo particolare Cannes, dove nel '62 era stata fondata la 'Semaine de la critique', Locarno e più tardi la Mostra di Pesaro), pose immediatamente il fenomeno all'avanguardia di quella che L. Micciché ha definito : di quello che, in altre parole, è stato ormai storicizzato come il nuovo cinema degli anni '60. I nomi di maggiore spicco - poco meno o poco di più che trentenni, quasi tutti di Praga, tutti formatisi alla dura selezione della Famu, la scuola di cinema cèca - sono quelli di Vera Chytilová, Jan Nemec, Jaromil Jires, Jirí Menzel, Evald Schorm, Ivan Passer e, il più famoso e fortunato di tutti, Milos Forman.

Pur ricco di tradizioni, il cinema cecoslovacco risentiva del ritardo di quel regime rispetto agli altri affini dell'Europa orientale (Praga non conobbe il trauma del 1956 così come era stato invece a Varsavia e, soprattutto, a Budapest). Così, sul finire degli anni '50, versava - come tutta la vita culturale nazionale - in una condizione di immobilismo e stagnazione. Le strutture produttive, come in tutte le altre cinematografie nazionalizzate prima della ventata riformatrice, erano caratterizzate da una rigida centralizzazione, la vita artistica regolata secondo criteri amministrativi e fortemente burocratizzati, i debutti non venivano incoraggiati per sfiducia verso i giovani e diffidenza verso il nuovo, i temi prediletti continuavano ad essere patriottico-resistenziali, il linguaggio ancorato al modello realistico-edificante, massima concessione, alla tradizione calligrafica.

L'inizio del nuovo decennio è segnato da un generale mutamento di atmosfera. Alle novità introdotte dal XII congresso del Partito comunista cecoslovacco e all'abbattimento di una serie di tabù nella vita culturale e intellettuale (la diffusione del jazz, della pittura astratta, della satira politica), si accompagna la riforma del sistema cinematografico. Come a Budapest e Varsavia, il vecchio apparato è sostituito da una nuova organizzazione fondata sul decentramento e su una relativa autonomia. Vengono costituiti i Gruppi artistico-produttivi (cinque negli studi cèchi di Praga-Barrandov, due in quelli slovacchi di Bratislava-Koliba), ciascuno composto da un responsabile artistico, uno produttivo, e da cinque o sei 'dramaturg' o selezionatori di soggetti. Viene quindi introdotto il principio della concorrenza (tra i gruppi e tra le idee che possono essere proposte all'uno o all'altro di essi) e affermato quello della responsabilizzazione diretta degli autori nella gestione degli studi. Intorno al '60 la situazione è più o meno la seguente. Una cinquantina di registi operanti a Barrandov, una quindicina a Koliba (ai due studi si aggiunge quello di Gottwaldov, destinato alla realizzazione di cortometraggi, documentari, film per ragazzi; da non dimenticare il cinema d'animazione nel quale la Cecoslovacchia vanta da sempre un'altissima specializzazione). Si producono annualmente una trentina di film a Praga e poco meno di 10 a Bratislava. Nel '60, 170 milioni di spettatori hanno riempito le 3400 sale sparse nel paese e i 100 cinematografi ambulanti. La scuola di cinema (presso la quale insegnano tutti i più quotati cineasti delle precedenti generazioni: da Otakar Vávra a Elmar Klos) prevede 5 anni di corso dopo i quali l'aspirante regista è tenuto a un tirocinio comprendente la realizzazione di 9 cortometraggi e un mediometraggio. Soltanto dopo potrà esordire.

I veterani come Vávra, Fric, Radok sono ancora attivi. In questi anni producono le loro opere più significative, con successo e con risonanza internazionale, i registi della generazione di mezzo come Jirí Weiss con Romeo, Julie a tma (Romeo, Giulietta e le tenebre, 1959), Jirí Krejcík con Vyssi princip (Il principio superiore, 1960), Zbynek Brynych con Transport z ráje (Trasporto per il paradiso, 1962), Vladimír Cech con Ùplne vyrizeny chlap (Un ragazzo completamente sconfitto, 1965), e infine la coppia formata da Ján Kadár e Elmar Klos con Smrt siriká Engelchen (La battaglia di Engelchen, 1963), con Obzalovany (L'accusato, 1964) e con Obchod na Korze (Il negozio al corso, 1965) vincitore del premio Oscar per il 1966. Partecipano tutti alla fase di revisione compiendo ciascuno il proprio esame di coscienza. Ma sia la scelta dei temi (la guerra, l'occupazione tedesca) che il modo di raccontarli (l'uomo sempre vittima della storia, intesa come qualcosa di ineluttabile e più grande di lui) non mutano sostanzialmente. Ciò che i giovani cineasti affermano prepotentemente è invece (U. Casiraghi).

Affermano la soggettività contro ogni falsa oggettività. Lo fanno scegliendo come chiave tutte le sfumature dell'ironia del grottesco, del surreale (secondo una grande tradizione letteraria: da Hasek a Kafka) e sovvertendo le strutture narrative convenzionali. Non imbastiscono intrecci, non raccontano storie e personaggi a tutto tondo ma osservano comportamenti e fenomenologie, raccolgono impressioni; e il loro linguaggio è ellittico, frantumato, fatto di frammenti. Come tema preferiscono spesso il conflitto tra le generazioni e la faticosa ricerca dei giovani di un proprio posto nella società e nel presente. Quasi sempre i loro protagonisti sono adolescenti alle prese con i disagi e gli slanci di un'educazione sentimentale. Non usano quasi mai attori professionisti.

La prima a esordire è Vera Chytilová (nata a Ostrava nel 1929). Dopo il film di diploma che è Strop (Il soffitto, 1961), realizza il mediometraggio Pytel blech (Un sacco pieno di pulci, 1962), mentre il suo primo lungometraggio è O Necem jinem (Qualcosa d'altro, 1963), fresco ritratto parallelo di due donne: un'atleta e una casalinga. Con Sedmikrásky (Le margheritine, 1966) ottiene ampi consensi internazionali. Dopo di lei debutta Forman (si era già segnalato grazie a due arguti e vivacissimi cortometraggi), con Cerny Petr (L'asso di picche, 1963) cui seguiranno Lásky jedné plavovlásky (Gli amori di una bionda, 1965) e Hori, ma panenko (Al fuoco, pompieri!, 1967). Jaromil Jires, nato a Bratislava nel '35, realizza Krik (Il grido, 1963) mentre nel 1964 firmano i loro primi film Jan Nemec ed Evald Schorm, entrambi di Praga, rispettivamente ventottenne e Sessantatreenne. ll primo, con Demanty noci (Diamanti nella notte), realizza un'inquietante metafora sulla paura (si tratta della spietata caccia all'uomo scatenata contro due ragazzi fuggiti da un lager) che lo stesso autore avrebbe successivamente ripreso e allargato in O slavnosti a hostech (La festa e gli invitati, 1966), presentato a Cannes dopo due anni di ostruzionismo da parte delle autorità: forse il film in assoluto più lucido sul motivo eterno e universale del diritto al dissenso. Schorm, anch'egli osteggiato dalle autorità sin dal primo film, si impone subito come la 'coscienza' della nová vlna con Kazdj den odvahu (Il coraggio quotidiano, 1964) premiato come il secondo film di Nemec (di cui Schorm era interprete nel ruolo principale) dai critici cecoslovacchi e presentato a numerose mostre internazionali: il film, che è stato paragonato a Prima della rivoluzione (1964) di Bertolucci, è la testimonianza di una delusione: quella di un mililante comunista trentenne che vede i suoi ideali soffocati e traditi dal conformismo e dal compromesso. La prima prova di Jirí Menzel (attore e regista nato a Praga nel '38: è un po' l'enfant prodige della nová vlna) si muove nell'ambito del film antologico Perlickv na dne (Perline sul fondo, 1965) composto di cinque episodi tratti da altrettanti racconti di Bohumil Hrabal e firmati, oltre che da Menzel, da Chytilová, Nemec, Schorm e Jires (un sesto episodio, di Ivan Passer, fu poi escluso). Autore piú di altri incline al sorriso e alla commedia, Menzel ha poi realizzato, con successo, Ostre sledovoné vlaky (Treni strettamente sorvegliati, 1966), vincitore dell'Oscar nel '68.

Un posto a parte occupano gli autori slovacchi. I nomi di Stefan Uher (nato nel 1930) e di Jurai Jakubisko (nato nel 1938) assumono un particolare rilievo in quanto spetta al primo il merito di aver inaugurato la nouvelle vague cecoslovacca nel 1962 con il suo Slnko v sieti (Il sole nella rete) e al secondo quello di averne tenuto in vita le speranze, con la sua genialità visionaria (da qualcuno avvicinata a quella del 'maledetto' sovietico Parazanov), quando il clima era ormai radicalmente mutato, con Zbehove a poutnici (Il disertore e i nomadi, 1969), vasto trittico ricco di spunti onirici sul significato della morte, presentato alla mostra di Venezia.

Il nuovo cinema cecoslovacco è in sintonia con tutto il nuovo cinema europeo e internazionale. E, come nei casi della nouvelle vague o del cinema nôvo, anche secondo i suoi autori le aspirazioni artistiche vanno di pari passo con quelle più generali per una nuova società. La 'Primavera di Praga' del 1967-68 vede impegnati direttamente non pochi di questi cineasti, così come avveniva a Parigi o a Rio. La nová vlna, nel panorama mondiale del 'nuovo cinema', assume intorno alla metà degli anni '60 uno speciale rilievo: dopo che i precoci segnali di rinnovamento si sono già risolti in stanchezza o dispersione, o addirittura in restaurazione, a Londra e Varsavia (e ancora in attesa, per quel che riguarda in particolare le sorti del 'nuovo cinema' nell'Europa dell'est, che si manifesti appieno la rinascita del cinema ungherese), Praga è per un fugace momento - forse la punta più avanzata del nuovo cinema mondiale. Ma gli anni verso la fine del decennio, il turbolento biennio '67-'68, segnano una svolta definitiva.

L'acutizzarsi di problematiche politiche e sociali (a est diversamente che a ovest, soprattutto con ben più gravi conseguenze, anche se inizialmente il 'joli mai' parigino può sembrare in perfetta sintonia con la Primavera di Dubcek) spegne rapidamente tutte le illusioni e la nová vlna, come un po' ovunque tutte le manifestazioni del 'nuovo cinema', si rivela fenomeno effimero, fragile, provvisorio. Vuoi per integrazione (i francesi) vuoi per fallimento (ma di un disegno riformatore che va ben al di là del linguaggio cinematografico), come a Praga e in Brasile, il 'nuovo cinema', nel momento della sua maggiore influenza, incontra fatti e situazioni più grandi di lui. Ma si tratta forse di una crisi fisiologica, di un naturale esaurirsi di funzione. Non è un caso, infatti, che da Skolimowski a Szabó, da Truffaut a Forman, dal free cinema inglese a Bellocchio, tutti i maggiori esponenti del 'nuovo cinema' leghino la loro espressione all'età delle illusioni, ai drammi passeggeri dell'adolescenza: a qualcosa che è vigilia e, appunto, 'prima della rivoluzione'. Risiede proprio qui il fascino e l'esilità di quella stagione.

La 'normalizzazione' imposta dai carri armati sovietici nell'agosto del 1968 significherà per molti autori cecoslovacchi attacchi molto duri - da Forman a Nemec, da Schorm a Menzel, quasi nessuno di loro verrà risparmiato (in taluni casi sarà la 'Komsomolskaja Pravda', l'influente organo della gioventù comunista sovietica, a intervenire) -, lunghi periodi di silenzio, per qualcuno la partenza senza ritorno, per qualcun altro un futuro di non brillante sopravvivenza. Sarà quest'ultimo il caso della Chytilová, di Menzel, di Jakubisko.


testo tratto da F Di Giammatteo, Dizionario universale del cinema, Roma 1985