Mentre imperversa la guerra, due musicisti (Ullmann e von Sydow) si ritirano su un’isola, ma vengono ugualmente fatti prigionieri. Quando finalmente riescono a fuggire, la barca che li trasporta s’incaglia in una barriera di cadaveri alla deriva.
La guerra (il riferimento contingente è il Vietnam) come occasione narrativa per smascherare la paura, la codardia e l’abiezione dei personaggi - non a caso intellettuali - messi alle strette dalla Storia. Colonna sonora assordante e priva di musica, fotografia livida e dialoghi improvvisati per ottenere il massimo di realismo psicologico: il regista svedese sperimenta in più direzioni, immerso in un’atmosfera di assoluto pessimismo.
Oggi, vent’anni dopo, posso vedere molto chiaramente che il film era diviso in due parti molto diverse. La prima, quella sulla guerra, era la peggiore. È troppo costruita. Ma la seconda, dopo la guerra, quando la distruzione diventa interiore, diventa un bel film, bello davvero. (1)