Retrospettiva
RENATO BERTA
programma Ticino
CIRCOLO DEL CINEMA DI BELLINZONA
maggio - giugno 2007
PRESENTAZIONE
di
Georg Janett

(traduzione di Giorgina Gaffurini e Michele Dell'Ambrogio)

Complice e critico: un'unica persona
Renato “Ciccio” Berta, l'uomo dietro la macchina da presa

Da 40 anni evita volutamente qualsiasi tipo di specializzazione e gira sia con registi affermati sia con esordienti.

La fama precoce di Renato Berta, “Ciccio” come lo chiamava sua madre, non nasce unicamente grazie ai primi film di Alain Tanner: fu infatti, a suo tempo, uno dei pochi ad aver varcato le frontiere linguistiche lavorando anche fuori della Svizzera romanda e introdusse alle nostre latitudini tecniche nuove, come le attrezzature più leggere per le luci che aveva scoperto in Italia. Il suo entusiasmo lo portò a creare un gruppo di lavoro, che riuniva Romandi, Ticinesi e Svizzeri tedeschi, che voleva essere la base di un'associazione futura composta da collaboratori tecnici ed artistici.

È con piacere che ricordo quell'epoca ricca di animate discussioni durante le quali non si parlava solo di problemi sindacali, ma anche di politica (culturale). Quali film bisogna realizzare in un piccolo paese? E come? Secondo quali criteri un film deve essere trasparente? Come può una troupe di quattro persone interagire nel migliore dei modi, evitando che ogni settore si concentri solo sul proprio lavoro in nome di una professionalità mal compresa?

Ancora oggi questi interrogativi lo assillano. È chiaro che un capo operatore è il più stretto collaboratore del regista, il suo complice, ma non è solo. Anche la troupe deve contribuire al raggiungimento degli obiettivi comuni: la coerenza interna del progetto. Non ci sono ricette semplici per riuscirvi, conta solo il coinvolgimento di ognuno.

Nel 1974, quando fu creata l'Associazione svizzera dei tecnici del film (ASTF), Ciccio mise a disposizione il suo appartamento ginevrino per farne il segretariato, e Ombretta, amica di gioventù e sua compagna di allora, fece le veci di segretaria; inizialmente senza retribuzione né rimborso spese. L'impegno personale per una causa ritenuta giusta è una caratteristica che lo distingue ancora oggi, anche se egli pone l'accento sul fatto che la situazione raggiunta dal cinema nel nostro paese tende piuttosto ad ostacolare la creatività e che una volta, a Soletta o a Locarno, i dibattiti erano ben più appassionanti.

Nel 1980, René Allio lo chiamò in Francia per le riprese di Retour à Marseille. “Ciccio” divenne Renato, ormai il suo domicilio era Parigi. Da quel momento in poi ha lavorato con registi molto diversi fra loro. È cofondatore e vice presidente dell'AFC, l'Associazione Francese dei direttori della fotografia cinematografica, e dal 1995 ha la doppia cittadinanza.

A Parigi come altrove, Renato è rimasto quello che era, il difensore di un cinema che non si vuole solo un ramo dell'industria dell'imballaggio che - come il novanta per cento dei film di oggi - presenta schemi logori in confezioni sempre nuove. “Viviamo in un'epoca di bruttezza”, dice, citando il pittore Balthus. Rimpiange che le sceneggiature, la cui scrittura segue sempre più criteri letterari, non lascino più spazio a quella poesia che può nascere al di là della narrazione, a quei momenti in cui il cinema porta ciò che solo la musica ci può donare, quella improvvisa bellezza (forse perché sfugge ad ogni controllo e a qualsiasi pianificazione) che troviamo ad esempio nei film di Méliès, di Flaherty o di Pelichian. I produttori di oggi, dice, non vogliono rischiare, la maggioranza si preoccupa più del proprio budget che del film. Sarebbe più onesto da parte loro, aggiunge, riporre i loro prodotti nella categoria dell'intrattenimento, come accade negli Stati Uniti.

Nei suoi primi mesi a Roma, ricorda, non aveva mai voglia di prendere la parola, perché tutti ridevano del suo spiccato accento ticinese; ora, quando parla del suo lavoro e delle sue concezioni, si esprime in francese, con grande eloquenza e con una concisione stupefacente.

Non apprezza la tendenza che molte troupe hanno di adattare ogni nuovo film al precedente: “certa gente vorrebbe fare sempre lo stesso film”, fa notare in modo sarcastico. Non ama neanche quelli che, in una troupe, lodano un regista dicendo che sa quello che vuole. Per lui un bravo regista è uno che sa quello che cerca. Per questo motivo, alle false verità di certi registi preferisce le vere bugie di un Daniel Schmid; e preferisce il minimalismo degli Straub alle ambiziose esigenze di altri cineasti, soprattutto se sono puramente teoriche, mentre il loro lavoro non è altro che la riproduzione di se stesso. “Ogni film è un prototipo”, insiste martellando.

Un'immagine animata è diversa da una fotografia, dice, evidenziando così ciò che differenzia l'istante fissato dalla sua estensione nel tempo e nello spazio, caratteristica essenziale dell'immagine in un film. “La cosa importante è l'inquadratura”, afferma. Il termine può essere inteso al contempo in senso tecnico come essere riferito ad un atteggiamento mentale in senso lato.

Ammira il modo in cui, nei migliori film di Hitchcock, i movimenti di camera sono interamente al servizio della messa in scena, e questo è esattamente ciò che il suo mestiere vuole essere.

In un contesto al giorno d'oggi mutato, infatti, quello che un tempo era considerato un vantaggio in termini di conoscenze tecniche e di competenze manuali non conta più: adesso chiunque riesce produrre un'immagine filmata. Renato, che sin dai suoi esordi ha lavorato con ogni tipo di tecnica, non fa parte di quei nostalgici che, di fronte ai più recenti sviluppi, non fanno che rimpiangere ciò che sta scomparendo. Al contrario, si impadronisce delle innovazioni.

La sua concezione del mestiere esige nella massima misura possibile che sia lui a dirigere la macchina da presa. Perfino su un grande film come Smoking / No Smoking di Alain Resnais, interamente girato in studio, non vuole limitarsi ad adeguare le luci. Il contatto che si stabilisce con gli attori attraverso lo sguardo nel visore è per lui troppo importante. Così come lo è il fascino, l'infinito piacere di vedere e percepire come complice, nell'attimo che separa il ciak dal “prego” del regista, che qualcosa si mette in moto, velato di incertezza e di inquietudine, dalla sensazione di abbandonare la terra ferma, probabilmente simile a quella di un paracadutista davanti alla botola, prima del salto.

Il suo successo farebbe quasi dimenticare i (pochi) rovesci della medaglia: i progetti che sono falliti. Quei film che preferisce dimenticare, e quel film di finzione del quale, negli anni '90, avrebbe dovuto essere il regista. Il progetto era in fase molto avanzata, il finanziamento trovato, tranne che sul versante svizzero. Il film, ambientato nel Ticino degli anni '60, quando i giovani seguivano con interesse i cambiamenti politici e sociali italiani e si preparavano anche loro a dare l'assalto alle granitiche strutture locali, avrebbe potuto usufruire delle esperienze maturate da “Ciccio” in quegli anni. Avrebbe potuto, perché la commissione competente per l'incoraggiamento al cinema ha rifiutato il progetto, adducendo facili pretesti. Per lui, gli errori nelle priorità e l'assenza di chiaroveggenza sono, oggi ancora, la dimostrazione della fondatezza della sua diagnosi sulla burocrazia del sistema di aiuto federale, sugli “apparatchiks” di Berna. Dalla sua posizione di osservatore esterno non può che sorridere vedendo che sono sempre le stesse istanze che pretendono di decidere quali cineasti possono ambire a qualcosa nel futuro (come è successo a Locarno nel 2006).

Si è sempre considerato anche un essere politico. Per questo si infuria nel vedere l'ignoranza dilagante in materia di storia. La storia del cinema lui la conosce, ma anche quella dei tempi moderni, e manifesta uno scetticismo radicale nei confronti delle dottrine di salvezza, dei movimenti alla moda e dei predicatori consapevoli della loro missione.

Ha lavorato a più di cento film, adattandosi ogni volta ad un nuovo ambiente e vivendo spesso con la valigia pronta sotto il letto, un letto posto in un alloggio provvisorio. Per questo nel 2006 ha deciso di raccogliere una nuova sfida, lunga e impegnativa: Max & Co., il primo lungometraggio d'animazione del nostro paese realizzato utilizzando dei pupazzi. Le riprese, a Romont, sarebbero durate un anno intero.

Renato Berta sfugge a qualsiasi classificazione frettolosa - e non solo per quel che concerne il suo lavoro. Robert Musil diceva che non si è mai veramente in un modo o in un altro, ma che quando si entra in contatto con un altro essere umano, questi restituisce un suono estremamente preciso (o estremamente impreciso): ed è così che si è.

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