1° ottobre - 6 novembre 2024 |
LA CONFESSIONE DELLA SIGNORA DOYLE USA 1952 Regia: Fritz Lang Con Barbara Stanwick, Paul Douglas, Robert Ryan, Keith Andes, Marylin Monroe... Bianco e nero, v.o. inglese, st. francese, 105’ Mae Doyle (Stanwick) torna nella piccola città natale, stanca e disillusa: sposa un pescatore (Douglas) ma, inquieta, lo tradisce con l’amico proiezionista (Ryan). Un torbido melodramma familiare sulla disperata, e forse impossibile, ricerca della libertà, Marilyn, in un ruolo minore, è un autentico concentrato di sensualità, sia in blue jeans sia nel costumino da bagno con cui offre – secondo il critico del New York Post – uno “splendido esempio dell’arte di uscire dall’acqua”. Il film ha un prologo insolitamente lungo, autentico documentario sull’industria del pesce in California. Quest’aurora serena e operosa del Nuovo Mondo – venata di consapevolezza letteraria (lo Steinbeck di Cannery Row) e di sincero realismo – introduce il classico triangolo sentimentale, dove una donna forte logorata dalla vita è preda di due uomini. Il cognome simbolico del primo, il pescatore D’Amato, e la sua professione rassicurano lo spettatore: è un’ancora, il marito ideale. L’altro invece passa il tempo dietro la finestrella della cabina di proiezione: un dannato ozioso. Tra il buono (un po’ grigio) e il cattivo (perché istintivo), Mae oscilla come ogni donna, ma senza superficialità. Una caratterizzazione asciutta, una Crimilde dimensione casalinga, adultera tra le pentole e il bar con tutto il distacco e la signorilità di una dama in esilio. Chissà quante ne ha fatte in quei dieci anni d’avventura! “I Hear a Rhapsody” s’intitola la canzone, eseguita da Tony Martin. I trascorsi epici di Mae, il poema della sua giovinezza forse sono quelli di Altar Keane, ma la signora Doyle ha più coraggio: si concede al brav’uomo, lo inganna, si pente, conquistando infine il perdono… fino alla prossima sbandata. (da Stefano Socci, Fritz Lang, Milano, Il Castoro Cinema, 1995.) |
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