INGMAR BERGMAN
parte prima: Gli anni cinquanta
CIRCOLO DEL CINEMA DI BELLINZONA
settembre 05 - maggio 06

Presentazione

di Michele Dell'Ambrogio

Quando si è artisti, quando si creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza ti sfugge, scompare dalle tue opere.
Dal punto di vista delle emozioni, bisogna essere illogici, è proibito non esserlo. Ma se si ha fiducia nelle proprie emozioni, allora si può essere del tutto incoerenti. Non fa nulla. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze delle emozioni che hai suscitato. Per sempre. (1)

Oggi ancora sento in me uno di quei brividi dell'infanzia quando penso che in realtà io faccio dell'illusionismo, perché il cinema non esiste che grazie a una imperfezione dell'occhio umano, la sua incapacità di percepire separatamente delle immagini che si susseguono rapidamente e che essenzialmente sono simili…Facendo un film mi rendo dunque colpevole di un imbroglio, mi servo di un apparecchio grazie al quale trasporto il mio pubblico, come su un'altalena, da un sentimento a quello opposto, lo faccio ridere, sorridere, gridare di spavento, credere a leggende, indignarsi, risentirsi, entusiasmarsi, eccitarsi o sbadigliare. Sono quindi un ingannatore, o - nel caso di un pubblico cosciente dell'inganno - un illusionista. Mistifico, avendo a mia disposizione il più prezioso e stupendo degli apparecchi magici che sia mai stato, nel corso della storia del mondo, in mano a un prestigiatore. C'è in questo (dovrebbe esserci, per tutti coloro che creano o sfruttano i film) la fonte di un insolubile conflitto morale. (2)

Molti registi dimenticano che il volto umano è il punto di partenza del nostro lavoro…Ne discende che l'attore è il nostro strumento più prezioso e che l'obiettivo non è che il mediatore delle reazioni di questo strumento…Dobbiamo anche ricordare che il più bel mezzo di espressione dell'attore è lo sguardo. Il primo piano obiettivamente composto, perfettamente condotto e recitato, è il mezzo più potente di cui dispone il regista per influenzare il suo pubblico. Ma è nel medesimo tempo il criterio più sicuro sulla sua competenza o sulla sua insufficienza. (2)

Ingmar Bergman
da
Olivier Assayas e Stig Björkman, Conversazione con Ingmar Bergman, Torino, Lindau, 1994 (1) e
Tino Ranieri, Ingmar Bergman, Firenze, La Nuova Italia, 1974 (2)
Per molti di quelli che oggi hanno più di cinquant'anni, Ingmar Bergman ha significato la scoperta del cinema d'autore, un cinema in grado di indagare l'animo umano e di porre interrogativi, non solo di divertire. Per i cineclub degli anni Sessanta è stato una sorta di vessillo, da sbandierare assieme a quello di Buñuel e da contrapporre al conformismo, così si pensava, del cinema americano. Olivier Assayas, già redattore dei “Cahiers du cinéma” e oggi uno dei più interessanti registi francesi, confessa nel suo libro-conversazione con Ingmar Bergman che il regista svedese è stato il cineasta della sua adolescenza, da quando aveva scoperto L'ora del lupo (1968), rimanendone ossessionato, in un cineclub di Milano all'età di sedici anni.
Anche se poi, per tutti, ci sono state altre passioni cinematografiche (le varie Nouvelles Vagues principalmente), ogni nuovo film di Bergman aveva la capacità di riannodarci con l'origine stessa della nostra passione. E lo si è seguito fedelmente fin verso la fine degli anni Settanta, anzi, fino a quel suo capolavoro che è Fanny e Alexander (1981-82) e che per lui avrebbe dovuto costituire l'addio al cinema. Non era vero, evidentemente, ma un po' si è voluto credergli e a poco a poco lo si è dimenticato. Certo, il suo nome è sempre rimasto quello di un maestro, ma il ricordo della sua opera, complice la programmazione televisiva (ma anche quella dei cinema d'essai) che l'ha ignorato per decenni , si è fatto sempre più indistinto, sfumato. Fino all'anno scorso, quando il vecchio leone ha ruggito di nuovo, dando l'impressione con Saraband di non aver mai smesso di rivoltare gli stessi temi, i rapporti coniugali in frantumi, i vincoli parentali avvelenati dalle misere meschinità che sembrano contrassegnare la natura umana. E allora a qualcuno è venuto in mente di andare a rivedere i suoi film dimenticati, a noi di proporre questa rassegna che, vista l'imponenza dell'opera bergmaniana, si protrarrà sull'arco di tre anni.
Si comincia con gli anni Cinquanta, quelli che gradualmente hanno portato Bergman alla notorietà internazionale, raggiunta con Il settimo sigillo (1956) e Il posto delle fragole (1957). Impossibile, invece, tenere in considerazione gli anni precedenti, che lo vedono esordire nel 1946 con Crisi e lavorare disperatamente tra il teatro e il cinema per cercare di farsi accettare dal mondo dello spettacolo. Le copie della decina di film realizzati sul finire degli anni Quaranta sono rare e prive di sottotitoli; e d'altronde, a parere di chi le ha viste e studiate, non meritano certo di essere fatte uscire dalle cineteche svedesi, con l'eccezione, forse, di un paio di titoli (Città portuale, 1948, e soprattutto Prigione, 1949).
Un'estate d'amore (1951), il film che apre la rassegna, è una rievocazione malinconica dell'adolescenza e per Bergman è il primo vero successo, che gli permetterà di dedicarsi al cinema con maggiore tranquillità, anche se prosegue parallelamente la sua attività teatrale a Malmö (Strindberg, Pirandello, Kafka), scoprendo e valorizzando quegli attori che segneranno in modo indelebile quella stagione (Gunnar Björnstrand, spesso nei panni dell'alter ego del regista, Harriet Andersson, Eva Dahlbeck e più tardi Max von Sydow, Bibi Andersson, Ingrid Thulin… Prima de Il settimo sigillo, Bergman lavora su quelle tematiche che saranno costanti e proprie della maturità ( l'insoddisfazione femminile nei rapporti coniugali, la riflessione sul ruolo dell'artista nella società, la tentazione del suicidio) con uno stile che oscilla a seconda dei casi tra il tragico, il comico e il grottesco; e i film di quel periodo sono qui quasi tutti rappresentati, con l'eccezione (e ce ne dispiace) di Monica e il desiderio (1953) e Sogni di donne (1955). Poi, come già detto, il regista svedese diventa un'icona del cinema mondiale e la prima parte della nostra retrospettiva si chiude con tre dei film che l'hanno consacrato sull'altare dei cinefili: Il settimo sigillo (1956), apologo sul Medioevo e sulla morte in cui l'impronta tragica si fonde mirabilmente con il tocco grottesco; Il posto delle fragole (1957), il vero capolavoro di quegli anni, “sintesi felice tra letteratura della memoria, angoscia luterana e analisi freudiana, 'realismo magico' e surrealismo, irrazionalismo nietschiano” (Di Giammatteo); e Il volto (1958), allegoria ironica e fantastica sulla condizione dell'artista nel suo ruolo di instancabile illusionista. Nel mezzo, Alle soglie della vita (1958), film quasi su commissione, sostenuto dal governo svedese per la sua campagna contro l'aborto, ma molto bergmaniano in quanto tutto centrato sull'universo femminile come unica possibilità di vita spirituale e di solidarietà umana.
La prossima stagione incontreremo un Bergman sempre più pessimista, impegnato a riflettere sull'incomunicabità tra gli uomini e sul “silenzio” di Dio, sugli orrori della storia e sulla malattia come preludio della morte, ma anche capace di intermezzi leggeri e giocosi che avranno il proprio apogeo con la splendida rivisitazione de Il flauto magico di Mozart (1974). Il percorso è solo all'inizio: implacabilmente Bergman ci costringerà a non eludere i problemi di fondo della nostra esistenza e della creazione artistica, ricordandoci nel contempo che l'angoscia sempre incombente sulla nostra fragile vita può spesso essere vinta con l'arma dell'ironia.

Michele Dell'Ambrogio
Circolo del cinema Bellinzona

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