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PRESENTAZIONE
di Michele Dell'Ambrogio |
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È al tempo stesso molto facile e molto difficile creare sogni al cinema. Qualche volta io ci sono riuscito, e questo mi affascina molto. Tarkovskij, quando non faceva Tarkovskij, ci riusciva meravigliosamente. Lo specchio è uno dei film più straordinari che siano mai stati fatti. Ieri parlavamo di Aurora. Aurora è al tempo stesso un racconto di fate, una soap-opera e un sogno. E ciò che affascina non è la soap-opera, non è la fiaba, ma il sogno. Io penso che se decidi di mettere in scena un sogno e ti dici: “Con la cinepresa e con tutte le macchine di cui dispongo, creerò un sogno”, non ci riuscirai mai. Ma se racconti semplicemente la tua storia, questa può essere un sogno meraviglioso. (1) Se voglio essere veramente sincero, devo dire che per me l'arte (e non soltanto l'arte cinematografica) è senza importanza. La letteratura, la pittura, la musica, il cinema e il teatro si generano e si nutrono di se stessi. Nuove mutazioni, nuove combinazioni sorgono e si distruggono; visto dall'esterno il movimento sembra di una vitalità febbrile, alimentata dalla superba sollecitudine degli artisti a proiettare davanti a sé e a un pubblico sempre più distratto un mondo che non si cura più di ciò che essi pensano. (…) Se considero tutti questi inconvenienti e nonostante tutto pretendo di voler continuare a “fare dell'arte”, è per un motivo molto semplice (lascio da parte le ragioni puramente materiali). Questo motivo è la curiosità. Una curiosità senza limiti, mai soddisfatta, continuamente rinnovata, insopportabile, che mi tormenta, non mi lascia mai in pace e ha preso completamente il posto della mia fame di partecipazione dei primi tempi. Mi sento come un prigioniero che, di ritorno dopo una lunga pena, sbarca improvvisamente nel fracasso e nel tumulto della vita. Vengo preso da una curiosità che è impossibile tenere a freno. Annoto, osservo, guardo dappertutto: tutto è irreale, fantastico, spaventoso o ridicolo. Afferro un pulviscolo che vola nell'aria: forse è l'inizio di un film. Quale importanza può avere? Nessuna, ma io lo trovo interessante e quindi pretendo che sia un film. Vado e vengo con questo oggetto che mi è proprio, che ho catturato io stesso, e me ne occupo con gaiezza o con malinconia. Mi do un gran da fare con le altre formiche, facciamo un lavoro colossale. (…) E questa, solo questa è la mia verità. Non mi importa che sia una verità per qualcun altro e, come consolazione per l'eternità, è evidentemente un po' magra, ma come base di un'attività artistica per i pochi anni che restano è evidentemente più che sufficiente, almeno per me. Essere un artista per proprio conto non è sempre piacevole, ma ha un vantaggio straordinario: l'artista divide la sua condizione con ogni essere vivente che, anch'egli, esiste solo per se stesso. In fin dei conti ciò crea senz'altro una fraternità abbastanza grande nel seno di una comunità egoista, sulla nostra terra calda e sporca, sotto un cielo freddo e vuoto. (2) Ingmar Bergman
Gli anni Settanta segnano per Bergman il definitivo passaggio al colore, già sperimentato in A proposito di tutte queste signore (1964) e in Passione (1969); ma il direttore della fotografia rimane quello di sempre, il grande Sven Nykvist. Sul colore il regista svedese è assai scettico: dichiara che il bianco e nero è la cosa più bella, perché con esso si invita il pubblico a “vedere i colori di un film”. Eppure nessuno potrà rimanere insensibile a quello “splendido interno rosso con donne” (come lo definisce Fernaldo Di Giammatteo) che è Sussurri e grida (1973), il film che apre questa terza parte della retrospettiva, dove il rosso è “il colore dell'anima”, alle prese con la malattia, la morte e la ricerca della reciproca comprensione. |
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