3 settembre – 12 ottobre |
TAM’-E GHILASS Iran 1997 Con Homayon Ershadi, Abdolrahman Bagheri, Afshin Khorsid Bakthiari, Safar Alì Moradi. Colore, v.o. farsi, st. f, 99’ Badiei, un uomo di mezza età, si aggira in macchina per la desolata periferia di Teheran, cercando qualcuno che l’aiuti a suicidarsi. Un soldato e un seminarista afghano si tirano indietro, ma il tassidermista di un museo accetta di seppellirlo, a patto che quando arriverà davanti alla sua fossa sia morto veramente. Kiarostami, anche sceneggiatore, non vuole parlare del suicidio del protagonista (i cui moventi restano nell’ombra), ma delle nostre reazioni di fronte alla morte (come testimoniano i lunghi dialoghi girati con una sola inquadratura, senza far mai vedere l’interlocutore, perché è con lo spettatore che il regista vuole interloquire). Mettendo sullo stesso piano i simboli della nuova realtà iraniana – l’esercito, la chiesa e il popolo – il film rivela uno spirito laico che evita sia la disperazione nichilista sia le facili consolazioni (come quelle simbolizzate dalle ciliegie nel racconto di Bagheri), e lascia libero lo spettatore di trarre la sua morale. Nell’ultima sequenza, che pare sia stata tolta da alcune versioni, vediamo la troupe al lavoro: con l’effetto, consueto nel cinema iraniano, di provocare un ritorno alla realtà per sottolineare la finzione della rappresentazione filmica, ma anche con l’ammissione del fatto che l’arte deve ritrarsi di fronte all’indicibile. Un cinema, comunque, di emozioni autentiche: uno dei pochi che ci sia rimasto, girato con uno stile diretto e rosselliniano, che va sempre a fondo. Palma d’oro a Cannes ex aequo con L’anguilla di Imamura. (Scheda sul film tratta da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2021, Milano, Baldini+Castoldi, 2020.) |
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