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FURY FURIA, Usa 1936
Di passaggio nella cittadina di Strad, Joe Wilson (Tracy) viene ingiustamente accusato del sequestro di una ragazzina: sfuggito al linciaggio, rischierà poi di trasformarsi in un ossessivo vendicatore. Appena arrivato in America, il regista tedesco prende spunto da un fatto di cronaca per proseguire la sua riflessione sulla colpa e la giustizia, ancorata però in una precisa dialettica sociale: procedendo per piccole sequenze - che si sviluppano attraverso parallelismi, false parentesi, metafore, simbologie (come l'indimenticabile discorso del barbiere che deve trattenersi dalla voglia di sgozzare ogni suo cliente) - il film mostra l'evoluzione di una stessa idea che si ingigantisce e si intensifica in azioni e luoghi diversi riuscendo così a costruire un sinistro e impietoso quadro della provincia, da sempre roccaforte dei valori positivi made in Usa e che invece Lang descrive come un crogiolo di malignità, cattiveria, rabbia e violenze represse. E allo stesso modo trasforma (con più di un richiamo al racconto Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist) un cittadino onesto in un criminale solo con la forza della sua indignazione, secondo uno dei temi langhiani per eccellenza che vede un assassino potenziale in ogni uomo. Peccato soltanto che il taglio di alcune scene e il lieto fine - impostogli dal produttore, il futuro regista Joseph L. Mankiewicz - affievolisca proprio in chiusura la carica drammatica e polemica del film. Esiste una versione colonizzata (male). Ho odiato il bacio finale, perché penso che non fosse necessario. Un uomo fa un discorso che è scritto e pronunciato molto bene, e poi improvvisamente, senza il benché minimo motivo - di fronte al giudice, al pubblico e a Dio sa chi - si gira e bacia la sua donna. Per me, un finale perfetto era quando lui diceva: “Eccomi qua. Non posso fare altrimenti. Che Dio mi aiuti”. Si sarebbe potuto mostrare un primo piano di Sylvia Sidney - raggiante di felicità - poi lui avrebbe potuto guardarla - fine. Quello che c'è adesso è un finale sdolcinato. (Fritz Lang, 2) |
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